Le strategie di digital marketing attuate da Rolling Stone Italia sono un esempio eccellente di come oggi un’azienda editoriale può creare un rapporto solido e coinvolgente con il proprio pubblico facendo leva sui nuovi media.
Rolling Stone Italia è l’edizione italiana del celebre periodico statunitense di musica, politica e cultura di massa. L’obiettivo raggiunto dell’azienda è stato quello di porsi non più soltanto come punto di riferimento italiano dell’informazione a tutto campo, ma come un vero e proprio brand, capace di relazionarsi ad altri marchi prestigiosi per sviluppare azioni di comarketing di grande efficacia.
Una comunicazione fortemente emozionale legata ad esperienze forti è il tratto distintivo di Rolling Stone. Un modello vincente anche sui social e in generale nel web attuale, che il marketing management dell’azienda ha saputo valorizzare al massimo creando una presenza online estremamente incisiva e sfruttando al meglio le peculiarità dei social network per rafforzare l’engagement con il suo target di riferimento.
Per approfondire tutti gli aspetti legati al web marketing management messo in atto dall’azienda, abbiamo intervistato Veronica Dolce, Marketing Manager di Rolling Stone Italia.
Come possiamo definire Rolling Stone Italia? Quali sono le caratteristiche della rivista e come si delinea il vostro orientamento di marketing?
Rolling Stone ad oggi non si può più definire “solo” una rivista, è un brand a 360 gradi. L’unico modo oggi per poter assecondare e cavalcare l’evoluzione del mondo della comunicazione e dell’editoria è presidiare e vivere su molteplici piattaforme. Ad oggi i nostri contenuti vengono pubblicati contemporaneamente in un magazine, in un sito e su una serie di canali social. Alla base di tutto siamo produttori di contenuti, caratteristica che in una prospettiva di marketing ci mette in condizione di offrire valore ai brand che scelgono di diventare nostri partner. Il nostro modo di fare marketing e comunicazione mira a lavorare in partnership: costruiamo idee e contenuti particolari che aggiungono visibilità e valore al brand che sosteniamo.
Qual è il vostro posizionamento? Come vi collocate nel mercato dell’editoria?
Indubbiamente il nostro core è presentarci come bandiera della cosiddetta “pop culture”, parola molto importante per noi. Ovvero una cultura pop nell’accezione più alta del termine, intesa come tutto un mondo a partire dalla musica, intrattenimento, serie TV, cinema e lifestyle. A ben vedere di fatto è tutto ciò che ruota attorno all’universo pop, ma in una accezione americana: tutto ciò che fa tendenza, che guarda avanti e che possiamo definire “cool”. In qualche modo quello che abbiamo cercato di fare è stato riposizionare il brand, anche se non è del tutto corretto parlare di un vero e proprio riposizionamento, perché il brand americano nasceva già con queste caratteristiche, cioè come un contenitore di tante tematiche che rappresentano il lifestyle, l’entertainment e la cultura in generale. Il nostro obiettivo negli anni è stato quello di superare la classificazione della nostra rivista come una fanzine musicale. In realtà Rolling Stone è tutt’altro, vogliamo presentarci come una finestra sul mondo, con una personalità spiccata e una chiave di lettura specifica.

Qual è il vostro target di riferimento?
Noi tocchiamo un target abbastanza ampio, grazie anche alla duplice natura dei media su cui poggia la nostra attività editoriale. Il magazine cartaceo è un po’ più di nicchia, poiché la stampa per sua natura è più verticale, aspetto che viene enfatizzato dalla periodicità mensile. In ambito digital invece ci espandiamo di più, perché l’audience è più estesa. Basti dire che la stampa fa 20.000 copie mentre sul web parliamo a 2 milioni di persone, con un’estensione e una differenziazione del pubblico molto più consistente.
Com’è cambiata la percezione della cultura pop dal momento in cui è arrivato internet e in modo particolare dall’avvento del Web 2.0?
L’arrivo di Internet e del Web 2.0 ha cambiato tutta la cultura, tutta la fruizione dei mezzi e tutti i linguaggi che vengono utilizzati. Sicuramente un tema consistente è quello legato all’User Generated Content (UGC) che tocca molto l’editoria. Se la vogliamo vedere da una prospettiva positiva, tutto l’universo editoriale è stato “democratizzato” e messo alla portata di tutti. Per chiunque oggi è possibile produrre e pubblicare contenuti e in questo modo fare cultura. La tecnologia ci ha permesso di abbattere le barriere fisiche, creare sempre più rete. Se invece vogliamo guardarla da un punto di vista più disincantato, non sempre tutto ciò che si trova in rete ha un valore culturale, per cui forse si è andati incontro anche a un depauperamento della qualità generale delle idee e dei contenuti.
Per potervi distinguere dalla massa dei contenuti generati dagli utenti cosa avete messo in atto? Come contrastare questa democratizzazione estrema dei contenuti?
L’unico strumento che abbiamo per contrastare questa problematica è puntare sulla qualità. Noi cerchiamo di mettere a disposizione il nostro background, una redazione di persone che hanno una preparazione solida, strutturata e che mette a sistema delle competenze diverse. Poiché la creazione di un contenuto richiede la collaborazione di tante professionalità, da colui che deve idearlo a colui che lo interpreta in una chiave commerciale, a colui che inserisce un testo, a chi si occupa della parte visual, fino ad arrivare a chi si occupa della pianificazione strategica per la comunicazione. Poi, noi cerchiamo di utilizzare – sempre per distinguerci – una componente editoriale e autoriale forte a cui leghiamo una sinergia di forze e competenze che all’interno di una struttura come la nostra esistono e non sono sempre a disposizione di tutti.
Punti di forza che chiaramente l’utente occasionale non possiede…
Nel mondo del digital ci sono mestieri e ruoli ben diversificati. Anche sapere pianificare quando pubblicare un contenuto richiede una preparazione ben specifica. Lo studio dei copy o dei visual che sta dietro la produzione di ogni nostro contenuto è frutto del fatto che ogni componente del nostro team ha un suo ruolo e delle expertise da portare avanti, che lo diversificano dagli altri. Non credo nella teoria che tutti possano fare tutto.
Qual è oggi la differenza tra la produzione di contenuti vecchio stampo sulla carta, radio o televisione e quella invece che mettete in campo online? C’è una differenza tra i due tipi di contenuto?
Non sarei così netta nel fare questa distinzione tra cartaceo e digitale, nel senso che quello che noi cerchiamo di fare anche nel cartaceo è sempre di mettere in atto questa attività che io definirei di “co-creazione”. Cerchiamo di interpretare quello che i brand potrebbero e vorrebbero dire, gli diamo un nostro valore aggiunto e poi lo riportiamo in una chiave che può essere utile per l’utente. D’altronde, il digital ci ha offerto più spazio, più formati, come nel caso dei long form che permettono di creare degli approfondimenti di grande spessore. In questo senso è necessario lavorare a quattro mani con il brand, perché se si trova un brand che è disponibile a trasmettere quali sono i suoi valori di base e quali sono i suoi pilastri della comunicazione, poi a noi tocca inserire quella professionalità autoriale che è in grado di conferire una caratterizzazione originale e unica al contenuto originale. Noi ci esprimiamo con un approccio irriverente e ironico, abbiamo sempre questa allure da pirati nel raccontare le cose, quindi se il brand si presta ed è partecipe, allora veramente possiamo consegnare al pubblico qualcosa che può essere definito di grande interesse.

Una volta che avete costruito questo contenuto brillante, come lo riversate nell’universo social?
I social media per noi sono fondamentali. Non mi stancherò mai di dire che il rapporto tra i social media e l’editore è un rapporto complesso: noi non possiamo esistere senza di loro, ma al tempo stesso a volte si rivelano un ostacolo. Nel senso che indubbiamente si sono trasformati in un altro media, quasi come dei competitor, ma contemporaneamente sono per noi una importantissima fonte di traffico e un importante veicolo di informazione. Quindi, noi cerchiamo di sfruttarli al meglio, cercando di capire quali sono gli algoritmi che li animano e qual è la tipologia di contenuto che ci permette di massimizzare l’interesse nei nostri confronti in modo da raggiungere e conquistare l’attenzione e l’interesse della nostra audience di riferimento. La regola principale che cerchiamo di seguire è quella della riconoscibilità, il fatto di produrre dei contenuti che siano identificabili come nostri, cercare di dare l’interpretazione, la personalità, far sì che da ogni contenuto che noi creiamo emerga la nostra personalità, seppure adattata al linguaggio della piattaforma.
Quali social utilizzate maggiormente?
Facebook e Instagram sono quelli che ci portano più risultati. Chiaramente, adattare un contenuto al canale da utilizzare è d’obbligo, per esempio, se andremo a scrivere un contenuto su Instagram, questo assumerà una certa forma, se dovrà essere raccontato su Facebook ne avrà un’altra. Facebook è più web oriented, lo si usa anche di più per condividere dei pezzi. Instagram adesso si è anche sdoppiato, se ne fa un uso nel caso delle stories, un altro per i feed. Noi per esempio abbiamo molta cura del nostro feed, cerchiamo di utilizzarlo per i lanci di cover e per la spinta dei contenuti editoriali. Dobbiamo però sempre fronteggiare un inconveniente che è intrinseco alla nostra natura di editore, ossia non sempre riusciamo a pianificare con largo anticipo cosa postare, a volte dobbiamo stabilire al momento le priorità. Questa è la criticità con cui ci confrontiamo, dobbiamo sempre mediare il dovere di fare informazione con la necessità di costruire un piano editoriale premeditato.
Non ha menzionato Twitter. Non lo usate?
Per me è stata una piattaforma di grandissimo interesse e abbiamo anche una fan base rilevante. Però ad oggi dobbiamo prendere atto che per noi Twitter non è più un caposaldo, soprattutto in termini di traffico generato. Poi, se posso dare la mia opinione strettamente personale, Twitter è ormai diventato troppo autoreferenziale, è un po’ come la televisione, molto frontale. Porta grandi risultati nei casi di account di figure politiche con una visibilità molto alta e con un numero di follower davvero ampio che certamente non possono farne a meno. Ma non è il caso di molti account con un numero di follower meno consistenti. Per quanto ci riguarda lo utilizziamo e lo continueremo a utilizzare, ma non abbiamo dei progetti a lungo termine su questa piattaforma.
Guardando al di fuori dei social, per esempio ad altri canali di comunicazione digitale come le email o i webinar, che utilizzo ne fate?
In realtà non molto, webinar non ne facciamo, al momento prediligiamo un rapporto più basato sul territorio. Ci capita di avere delle media partnership con delle realtà sul territorio, come i festival o manifestazioni di diverso tipo in cui interveniamo in qualità di speaker o moderatori, talk e presentazioni. Di solito preferiamo questo genere di attività che ci consente di essere presenti fisicamente come realtà anziché qualcosa di totalmente digitale e virtuale. Per quanto riguarda newsletter o mail, al momento ci riserviamo di implementarle come strumento necessario in un futuro prossimo, ma al momento abbiamo in cantiere tante altre attività che ci tengono abbastanza impegnati.
Come pensate di sviluppare la vostra comunicazione digitale per il futuro?
Una cosa che vorremo potenziare in futuro sono proprio le newsletter, uno strumento da cui potremmo trarre dei grandi vantaggi. Attualmente stiamo puntando sempre di più sui video. Nel frattempo stiamo lavorando a un rebranding del sito, un layout sulla scia di quello americano. Abbiamo ottimizzato in ottica SEO i nostri contenuti, cosa che ci permetterà uno scatto in avanti dal punto di vista dei numeri e del responso di Google e di crescere sempre più come testata di riferimento per un pubblico sempre più vasto.